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GHIAIA NERA

Viaggio lungo la Via della Seta.


Reportage fotografico realizzato in modalità ibrida : pellicola 35mm e digitale


Karakoram, in turco, significa “ghiaia nera”.
Il suo suono duro e imponente evoca subito immagini di paesaggi aspri ed inospitali. 
Questo nome così evocativo era usato dai mercanti dell’Asia centrale per indicare il Karakoram Pass, un passaggio montano a 5.540 metri di altitudine che si trova tra il Pakistan e la Cina.
Per millenni questo passo è stato un crocevia di commercianti e pellegrini, monaci buddhisti ed esploratori che seguiva la leggendaria Via della Seta, la rotta commerciale che collegava l’Oriente con l’Occidente.

Oggi, accanto a ciò che rimane di quegli antichi sentieri impervi, si estende la moderna Karakoram Highway, una strada asfaltata che, serpeggiando attraverso territori di dimensioni mitiche tra le più alte vette del mondo, collega la cittadina cinese di Kashgar con la capitale pakistana di Islamabad.

E’ lungo questa strada che è iniziato il mio viaggio insieme a due amici. 
Partendo da Abbottabad abbiamo risalito la Karakoram Highway verso il Passo Khunjerab: il nostro obbiettivo era trovarci faccia a faccia con il confine cinese per poi virare nuovamente a sud.

Non è stato un viaggio facile, tutt’altro.
Più risalivo il corso dell’Indo, più percepivo la forza di una corrente invisibile fatta di sguardi che si riducevano a fessure che mi scrutavano con curiosità, sorpresa, disprezzo.
Chilometro dopo chilometro, scorgere il profilo di una donna è diventato un miraggio e la mia presenza si è fatta sempre più pesante. Solo in poche occasioni sono riuscita ad addentrarmi nei villaggi, scoprendo mercati e bazar fermi nel tempo.

Poiché talvolta l’incertezza su come sarei stata accolta prevaleva tra i miei compagni di viaggio, ho trascorso buona parte del tempo documentando quanto più riuscivo a vedere dal sedile posteriore della nostra berlina. 
La macchina, che inizialmente mi era sembrata una barriera limitante al mio lavoro di reportage, è divenuta un dispositivo che mi ha permesso di affacciarmi su alcuni scorci della realtà quotidiana che scorre intorno a quella strada. 

Con il finestrino sempre abbassato, divenuto la quinta per eccellenza per questa serie di scatti, ho colto la messa in scena della realtà che reagiva alla sorpresa di una presenza femminile, documentando l’intensità del rapporto fra me e questa società apparentemente imperscrutabile. 
Io stessa sono diventata oggetto di interesse per quegli uomini avvolti nelle loro mantelle che, sorpresi dalla mia vista, si fermavano di colpo sulla via e con il solo sguardo riuscivano a comunicare il loro stato d’animo nel vedermi.

Man mano che ci avvicinavamo al confine cinese, avevo la sensazione che davanti al mio obiettivo stesse scivolando un mondo che pare essere più lontano nel tempo che nella geografia.







Pattan, 833 mt./ 180km da Abbottabad
Siamo nel basso distretto di Kohistan.
Questa foto segna la mia prima presa di posizione in questo viaggio.
Siamo fermi ad un bivio, mentre l’autista e la guida discutono sulla direzione da prendere.
Non chiedo nulla, so che mi verrebbe detto di no, quindi apro lo sportello e mi lancio fuori dalla macchina, ignorando la pioggia sferzante e il freddo improvviso. È la prima volta che riesco a scendere dall’auto dopo almeno cinque ore di viaggio, durante le quali abbiamo visto solo sassi, strada e l’Indo violento scorrere sotto di noi.
Lo sbalzo termico fa appannare subito l’obiettivo della mia macchina fotografica, ma riesco comunque a catturare in uno scatto quest’uomo avvolto nel suo mantello, che cammina sul ciglio della strada.

Kohistan in persiano vuol dire “terra delle montagne”: è qui che si incontrano per la prima volta l’Himalaya, l’Hindukus e il Karakorum.
Respiro e cerco di orientarmi: case e costruzioni incompiute, sassi, macchine e uomini che osservano il via vai sulla strada con sguardi accigliati. 

Siamo partiti solamente il giorno prima da Abbottabad, abbiamo percorso solo 180km tra montagne e rocce, ma mi sembra il doppio. 
Questa mancanza di punti di riferimento mi disorienta e mi fa sentire intrappolata in un abbraccio di roccia dal quale non posso svincolarmi.


Tutto mi sarei aspettata tranne che rimanere imbottigliata nel traffico tra camion e motociclette scoppiettanti sulla “Via della Seta”.

Incastrati lì, nel mezzo del nulla, non riuscivo davvero a capacitarmi di come fosse possibile che si stesse camminando a passo d’uomo da circa un’ora. Intorno a noi il villaggio proseguiva nel suo quotidiano, gente che urlava da un lato all’altro della strada, ragazzi che trasportavano sacchi più grandi di loro  adulti a fare comunella a braccia conserte guardando le macchine ferme.

Mentre noi siamo stipati e sudati dentro la nostra berlina, con i finestrini tirati giù e lo scarico di tutte le altre macchine che ci entrano nell’abitacolo, noto un anziano fermo tra due auto in sosta a guardare la strada appoggiato al suo bastone.
Scatto più foto, poi i suoi occhi entrano nell’obiettivo e mi guardano. Mi ghiaccio e alzo il mio sguardo. Lui continua a guardarmi, porta la mano destra davanti alla bocca e lentamente scuote il capo a destra e sinistra. La sua silenziosa disapprovazione è disarmante, mi fa paura, tanto che abbasso la macchina fotografica, alzo il finestrino e scivolo nel sedile per non farmi vedere. Non sono riuscita a scattare più niente per diverse ore.



Skardu, 2.228 mt. / 500km da Abbottabad.

Arriviamo a Skardu di notte, dopo giorni di viaggio.

Contrariamente alla regola imposta dal nostro autista, Mr. Gilani, abbiamo viaggiato per diverse ore anche dopo la preghiera del tramonto, quando il sole era ormai calato.
Ancora una volta il buio ed il silenzio in cui siamo immersi ci fanno sentire smarriti nel nulla, solo le rocce continuano a brillare nell’oscurità, non riescono a celare le loro guglie innevate nemmeno in una notte senza luna.

Iniziamo a respirare l’aria fredda di montagna.
Al mattino scopro che l’elettricità del nostro appartamento è troppo debole e le batterie della mia macchina fotografica non si sono ricaricate. Carico un rullino nella mia analogica ed usciamo ad esplorare il posto. Rimaniamo sorpresi: Skardu è una cittadina viva, brulica di motociclette e camioncini, gente che entra ed esce da piccoli empori improvvisati. 

Scopriamo che questo è l’ombelico del mondo degli scalatori che ambiscono alle vette del K2 e del Nanga Parbat. Camminando per le sue strade polverose, ovunque si notano murales dai colori vivaci, ritratti di simboli patriottici e di scalatori che sono riusciti nelle loro imprese alpinistiche.

Ma ciò che più ci sorprende è che qui gli italiani sono conosciuti: tutti quelli che capiscono da dove veniamo ci accolgono con grandi sorrisi e lunghi monologhi indecifrabili in cui a stento riconosciamo i nomi distorti dei nostri alpinisti connazionali che hanno fatto la storia delle loro montagne.


Troviamo il mercato: è vivo, brulicante di gente che scarica e carica merce. Mi sorridono e qualcuno comincia a indicare la mia macchina fotografica, suggerendomi chi fotografare o spingendo davanti all’obiettivo i loro compagni.

Scatto questa foto con alle spalle l’intero mercato divertito e agitato da questo set improvvisato.
I commercianti di angurie stanno scaricando i frutti, e mi osservano incuriositi mentre si arrampicano sul camion con estrema agilità. Alcuni mi suggeriscono i loro punti di vista, mentre altri prendono in mano la situazione e spingono avanti il più timido di loro, che mi guarda felice ma incerto.


“Mr. Gilani please stop HERE NOW!” urlo al nostro autista.
Eravamo ripartiti da poco lasciandoci Skardu alle spalle quando vedo quel ragazzo in piedi accanto ad una moto gialla, fermo in una piazzola sul ciglio della strada.
E’ mattina e ci siamo rimessi in viaggio da circa venti minuti.
Mr. Gilani non ha ancora perso la pazienza, non mi contraddice e si ferma di scatto accanto a quella moto. Salto giù dalla macchina mentre lui, gia a cavallo della moto, sta per dare gas. 

Alzo la mano e gli indico la macchina fotografica.
Dentro di me temo di innervosirlo e spaventarlo, prego che non mi dica no.
Lui stupito ma tranquillo mi guarda e fa cenno con la testa.
Posso fotografarlo.
La sua posa è elegante come quella di un attore hollywoodiano di altri tempi.
Resto in apnea e scatto.
Giro la pellicola tre volte.
Poi lo ringrazio portandomi la mano destra sul cuore, come si usa da queste parti.
Mi dice qualcosa e mi traducono che mi sta ringraziando di cuore, ne è onorato. 

Mi accorgo di quanto il suo volto si sia addolcito da quando mi ha visto scendere dalla macchina ad ora.
I suoi occhi, prima guardinghi, adesso sono grati.
Chissà cosa ha pensato.
Accenna ad un sorriso cercando di contraccambiare il mio ma percepisco quanto gli sia innaturale tirare gli zigomi in quel volto così serio. Poi dà gas e accelera in direzione di Skardu.
Shigar Valley, 2550 mt. ca / 545km da Abbottabad

Mentre scivoliamo sulla strada in discesa, la valle di Shigar ci appare come fosse un quadro. 

Dall’alto riusciamo a vederla nella sua interezza, sonnolenta e lussureggiante, da un lato la Bauma Lungma che confluisce nel fiume Shigar, dall’altro una tempesta di sabbia in arrivo.

Osservandola mi accorgo che questa è la prima vera oasi che vedo in vita mia: la vegetazione è verde abbagliante, contrasta e disorienta tra tutte queste sabbie e sassi. 
La valle di Shigar è famosa per la sua incredibile bellezza naturale e per il celebre Shigar Fort, costruito nel XVII secolo per volere del Raja di Amacha. Era necessaria una residenza reale ed un centro amministrativo da cui governare questa regione.
Arrivati a valle, le strade del villaggio sono popolate di soli giovani: ai bambini che giocano polverosi per strada, si contrappone una piccola fiumana di ragazzi in divisa che si stanno dileguando per i campi, all’uscita di scuola.
Hunza Valley 2.438 mt, / 324km da Shigar Valley, 463km da Abbottabad

Quando la guida Hazeeb si gira a guardarci dal sedile del passeggero i suoi occhi sono eccitati: 
“Guys, finally we are driving in the Hunza Valley! Alma, you can do whatever you want here!”

Hunza è una terra molto più moderna rispetto a tutto il resto del Pakistan, una parentesi religiosa dove la maggioranza della popolazione è ismailita. L’Ismailismo è una branca dell’islam sciitia caratterizzata da un’interpretazione progressista con una forte enfasi sull’educazione, la giustizia sociale e la coesistenza pacifica.

Per secoli questa valle è stata un crocevia fondamentale lungo la Via della Seta, dove commercianti e pellegrini si fermavano attratti dalla sua bellezza e dalle sue risorse. Sono molte le leggende su questo posto che narrano di un luogo mitico, un regno nascosto tra le montagne che ha da sempre attratto viaggiatori e studiosi.  La più famosa è quella che ricollega Hunza al paradiso perduto di Shangri-La, descritto nel romanzo di James Hilton “Orizzonte perduto”. Si dice che la valle di Hunza fosse una terra di eterna giovinezza e salute, dove gli abitanti vivevano per oltre cento anni grazie alla purezza dell’acqua e dell’aria. Questa ed altre leggende rendono ancora più misteriosa e fascinosa questa valle, un luogo ricco di storia e mitologia.




Minapin, 2.658 mt. / 440 Km da Abbottabad

Ci fermiamo a dormire nel villaggio di Minapin, uno dei villaggi che si trova nella valle di Hunza, all’ombra del Rakaposhi mountain.

Al mattino curiosiamo per il paese ancora addormentato, sotto i ciliegi in fiore che sembrano nuvole rosa. La valle conserva un fascino antico con case in pietra e legno, incastonate tra i frutteti.
Ci sentiamo indietro nel tempo, poi, inaspettatamente, compare davanti a noi un pulmino rosa ed una piccola bambina vestita di tutto punto pronta a salirci sopra.
Rimango sbalordita e accelero il passo per vedere chi sono i passeggeri: donne e ragazze! Leggo tutto quello che riportano le fiancate del mezzo di trasporto: 

Free and safe Bus service for females.

Le passeggere, sedute composte,  da dentro il pulmino mi guardano timidissime con gli occhi sorridenti. 
Accenno un saluto e qualcuna di loro ricambia con un sorriso.
Poi, prima che l’autobus “WOMEN” riparta, una ragazza sorridendomi si porta la mano sulla spalla per indicare la mia treccia lasciata scoperta come volesse farmi un complimento. 

Dopo tutti questi giorni senza presenze femminili, incrociarmi con loro mi lascia una strana sensazione, come se guardandole, di riflesso vedessi me, come se il solo osservarle mi abbia ricordato di un linguaggio non verbale con cui possiamo tranquillamente intenderci tra noi donne.


Sost, 2800mt. / 543km da Abbottabad

Partiti da Karimabad, in un paio di ore abbiamo raggiunto Sost, una sorta di ultimo tratto di strada dove fare rifornimento di carburante, comprare acqua e qualche snack prima di entrare nel parco nazionale del Khunjerab.

Qui troviamo dei gruppi di boy scout tutti in fila indiana che ci osservano fieri ed orgogliosi come la loro bandiera pakistana sorretta dal capofila.
Sebbene sia aprile e la neve cominci a sciogliersi, la strada in alcuni punti è ancora ghiacciata e ci consigliano di lasciare la nostra utilitaria e salire su una jeep.

In un paio di ore raggiungiamo una valle bianca e incontaminata: siamo a 5000 mt.
C’è un solo elemento che stona con il candore del luogo: container abbandonati ai lati della strada, alcuni hanno gli sportelli aperti. 
Ci spiegano che i truck cinesi possono arrivare fino a Sost ma poi non possono proseguire nel resto del Pakistan. Quindi si incontrano lungo questa strada con i camion supercolorati dei pakistani e spostano la merce da un truck all’altro.
Passo Kunjerab, 4693mt. / 640km da Abbottabad

Abbiamo raggiunto il confine.

Siamo arrivati faccia a faccia con la frontiera cinese e siamo rimasti lì davanti a guardare i caratteri cinesi d’oro luccicante affissi sul portale mastodontico di cemento.

Non mi ero fatta un’idea di come potesse essere il confine tra Pakistan e Cina e l’apparire di quella porta massiccia nel bel mezzo di una coltre bianca, dispersa nel nulla mi ha fatto sorridere: era come se quella costruzione monumentale pretendesse di incutere timore, di porsi come ostacolo invalicabile, lassù tra tutte quelle gigantesche cime che invece la facevano apparire una piccola torretta smarrita nel bianco accecante della neve.

A presidiare la fine della terra pakistana, soltanto un uomo con un vecchio kalashnikov a tracolla, felice di vedere qualcuno con cui potersi vantare del suo oggetto.
Sul lato cinese, invece, nessuno si palesa nel freddo pungente.

Questa è l’unica foto abbastanza visibile che sono riuscita a sviluppare. Il rullino scattato lassù mi ha serbato un segreto fino al giorno in cui lo ho sviluppato: la pellicola si è rivelata completamente alterata solo nei frame scattati là, ad oltre 4.600 mt. Un mio collega ha ipotizzato la presenza di campi magnetici in quelle zone. Per quanto sia una spiegazione intrigante e misteriosa, preferisco vederla come un piccolo scherzo del destino.


Per ore ed ore non c’è niente che dimostri la presenza di zone abitate.

Mi sento sprofondata al centro del mondo, in un deserto di montagne che alterano l’orizzonte e disorientano.

Corriamo sull’asfalto facendo attenzione ai sassi che sono caduti dalle rocce, ci fermiamo davanti ad un immenso masso che ha ostruito il passaggio: alcuni autisti sono scesi dai camion e stanno cercando di spostarlo per poter passare. Sull’altro lato la strada finisce in una gola a strapiombo.

Siamo al dodicesimo giorno di viaggio ed ormai abbiamo collezionato centinaia di  chilometri con paesaggi simili ma nonostante tutto non posso fare a meno di stare con il naso fuori dal finestrino.

Andiamo troppo veloci per mettere a fuoco quello che c’è sul ciglio della strada, ma i miei occhi percepiscono qualcosa. Setto la velocità di scatto della mia macchina fotografica ed inizio a scattare.

Solo a tarda sera prima di crollare dopo un pasto improvvisato, riguardando gli scatti scopro che erano lì, nascosti all’ombra di enormi sassi per sfuggire al sole accecante, ad osservare la strada e chi vi passasse.
Non siamo mai stati soli, neanche nel deserto: come se le rocce avessero gli occhi.
Passu, 2.485mt., / 508km da Abbottabad

Inizio ad essere stanca.
L’arrivo al confine cinese è stata una botta di adrenalina.

Abbiamo davvero raggiunto il nostro obiettivo e fatto il “giro di boa” davanti al gate sinopakistano. Il viaggio non è ancora finito ma la mia testa ed il mio corpo desiderano un attimo di tranquillità, fuori dall’auto e lontano da questi territori divenuti troppo vasti.

Ci propongono di fermarci a Passu, la nostra guida vuole farci vedere il ponte sospeso sulla vallata e noi pensiamo che sia un’ottima scusa per sgranchirsi le gambe e respirare aria fresca un paio d’ore.
Mentre entriamo nella valle vedo dei messaggi scritti con delle pietre bianche tra cui un Welcome to Passu: frasi di benvenuto per l’Aga Khan che venne in visita nel 1987.
Sopra di noi ci osserva dai suoi 6106 mt. una cattedrale di rocce e guglie illuminate dal sole del tramonto, è il Tupopdan, “roccia calda” così chiamata perchè in inverno sulle sue pareti la neve si scioglie rapidamente.


Cercando di stare dietro ai miei compagni che stanno scendendo tra le rocce diretti al ponte, camminando con lo sguardo sui miei piedi, concentrata a non perdere l’equilibrio, per poco non mi scontro con lei che, lentamente, stava risalendo in senso opposto.

Mi blocco disorientata, mi scuso in italiano, poi metto a fuoco la situazione: davanti a me c’è una signora con un fascio di legnetti sulla schiena che sta risalendo la collina. Ci guardiamo per un lungo istante. Anche lei sembra stupita. 

E’ elegantissima, i capelli candidi sono intrecciati nascosti malamente sotto un velo fissato da un copricapo colorato. 
E’ come se ci riconoscessimo.
Ci scambiamo un sorriso.
Quindi io alzo la mia macchina fotografica e con la mano destra mi indico il volto.
Ci provo, la trovo bella e voglio fotografarla.

Lei ha fatto un cenno con la testa e senza cambiare posa aspetta che le scatti una foto. 
Non ero pronta a fotografarla, non ero pronta ad incontrarla!

Scattato due volte, incredula di avere un volto femminile davanti a me.
Chissà se verrà qualcosa, la luce è bassa, siamo al tramonto e per giunta in un cono d’ombra!
Poi mi porto la mano al cuore per salutarla e lei prosegue a risalire mentre io la guardo incredula portare sulla schiena quel carico di legna.

Mi giro e vedo a valle, in lontananza i miei compagni che sono già scesi al ponte sospeso di Passu.





© Alma Claudia Cosenza. All rights reserved. No image may be used or reproduced without written permission.